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BLUE RUIN, cinema e armi nella visione di Jeremy Saulnier


Una cosa che in molti non hanno ancora notato a proposito di Blue Ruin di Jeremy Saulnier, è che il film non parla solo di quanto violenza chiami altra violenza o di come la vendetta sia un piatto che va servito freddo (cit.), ma in particolar modo di quanto l’eccessiva disponibilità delle armi negli Stati Uniti sia oramai una consuetudine, e di come le stesse siano alla portata di tutti. Argomento senza dubbio già ampiamente affrontato dall’informazione e nella quotidianità, ma difficilmente in un film senza che il tema venga trattato in modo retorico e didascalico, per quanto non sia un argomento che possa beneficiare di alcuna retorica. Credo sia giusto parlarne proprio nei giorni in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito il diritto al porto di armi nella città di New York, lungo una battaglia legislativa che continua a consumarsi da anni e riemersa a fronte delle recente strage di Uvalde, e non solo.  

Forse, addirittura, volendo estremizzare, è come se il film raccontasse di come non sia la vendetta a portare all’uso delle armi da fuoco, ma di come l’idea di rivalsa, di resa dei conti nasca dalla sempre vicina disponibilità di avere e di potere usare un fucile o una pistola per i propri fini, “leciti”, banali o folli che siano. Se non riesci a comprare un’arma per mille motivi, poco importa, ci sarà sempre un amico disposto a prestartene una, con una competenza e una saccenteria tali da conoscerne meccanismi e risvolti, a tal punto da esserci persino lui in prima persona, quando avrai bisogno e non sarai certo di saper utilizzare quella stessa arma da fuoco. In Blue ruin, non credo che certi aneddoti e certi toni siano da “commedia”, quanto più da fredda analisi delle dinamiche interne a una società oramai disposta alla distruzione, e chissà, anche all’autodistruzione. Quando Dwight, il protagonista, entra in un negozio di armi potrebbe anche comprarlo, un fucile, ma non lo fa per altre ragioni. 

C’è poi l’accostamento degli antagonisti alla caccia, antagonisti con un vero e proprio arsenale in casa, quasi a volere ironicamente e provocatoriamente giustificare il possesso massiccio di armi da fuoco. Ma il fotografo italiano Gabriele Galimberti, qualche anno fa, ha opportunamente documentato, viaggiando per tutti gli Stati Uniti, quanto il confine tra il possesso di armi, la caccia e altre labili giustificazioni sia stinto da un po’, lasciando sfociare il tutto nel collezionismo e nell’ossessione.

Del film, in realtà, non mi sono piaciute diverse cose. La scrittura e la regia, per esempio, nonostante la tangibile lentezza meditativa, la estenuante attesa e il conseguente disorientamento di Dwight nelle varie fasi del percorso vendicativo, certamente apprezzabili, ma che forse mi sarebbe piaciuto vedere ancora più esasperate.

Al contrario, ho apprezzato particolarmente il modo in cui viene trattata la possibilità di causare una strage, che si sia protagonisti o antagonisti, che si sia dalla parte del bene (vedi anche il suo “fornitore amico”) o del male. Affresco dipinto attraverso “UNA” vendetta privata, personale e familiare, attraverso una disperata difesa della propria sorella e dei suoi due bambini, di ciò che resta e dei propri ricordi intimi e intensi. Mi è piaciuto il modo di considerare registicamente il protagonista come antieroe, a volere evidenziare che anche l’ingenuità e l’imbranataggine possono diventare follia omicida, se le armi sono di facile reperimento. Non credo che la caratterizzazione del personaggio sia casuale o legata soltanto al suo istinto vendicativo. 

A livello solo concettuale (e a brevi tratti), il film mi ha ricordato Vivere e morire a Los Angeles, capolavoro di William Friedkin, in cui l’antieroe sorprende per l’epilogo della vicenda. In Blue Ruin forse ce lo si aspetta un po’. Inoltre, anche in Hold the dark, dello stesso regista, Russell Core è totalmente imbranato con le armi da fuoco, a conferma di quanto lo sguardo di Saulnier su un tale tema sia coerente e ben radicato. E poi c’è quella dichiarazione del fratello del presunto assassino dei genitori di Dwight, in Blue ruin, che rimanda, anche se con un certo sforzo, al dubbio e all’incertezza in merito alla pena di morte negli Stati Uniti, eccezionalmente esposti in The Life of David Gale, altro capolavoro di Alan Parker, a sottolineare l’irreversibilità di qualsiasi atto violento a fronte di qualsiasi ragione. 

Per concludere, un film che non mi ha convinto del tutto, ma che considero lodevole per l’intenzione, filmica, ma soprattutto ideologica.

AMERICA LATINA, di Damiano e Fabio D’Innocenzo


Non sono i fratelli Coen. E per capirlo basterebbe semplicemente osservare e ascoltare la scena in cui il padre del protagonista, Massimo Sisti, interpretato da Massimo Wertmüller, si confronta con il figlio, interpretato da Elio Germano, per comprendere come l’inefficacia della scena non dipenda tanto dalle capacità attoriali del nipote di Lina Wertmüller, né tantomeno da quelle del giovane attore romano. Dipende da come la scena è stata scritta e diretta. Dai fratelli D’Innocenzo. E’ vero, forse sin dall’inizio del film si rimane incollati allo schermo fino alla fine, ma più per dipanare le pieghe narrative che si vanno accumulando man mano (e neanche tante), che per un reale coinvolgimento emotivo. E questo, in realtà, non perché il film non coinvolga del tutto, quanto perché se noti la presenza di certi artifici cinematografici, anche solamente da appassionato di cinema o di tecniche narrative (come ormai ce ne sono tanti), diventi sempre più consapevole del mezzo espositivo in itinere, che invece dovresti dimenticare sin dall’inizio di qualsiasi storia per godere di un’eventuale maggiore immersione. Si rimane Incollati più che altro per ricomporre i tasselli, come nel caso di Stringimi forte di Methieu Amalric. Anche qui, pur trattando tematiche completamente diverse, a voler essere precisi si scorge l’artificio filmico, forse più che in America Latina, ma l’idea distorsiva risulta concettualmente omogenea nella sua frammentarietà. Ora, va bene che in qualsiasi manuale di tecnica cinematografica l’inquadratura “sbollata” figuri come sinonimo di inquietudine, di irrequietezza e di distorsione, contrariamente a una “in bolla” che annunci stasi, equilibrio, serenità, ma tra l’essere consapevoli di una certa tecnica e l’imparare a usarla sapientemente c’è una distanza abissale. Lo stesso vale per i primi piani. Vengono in mente moltissimi film dell’intera storia del cinema in cui, un po’ per la limitatezza dei mezzi a disposizione, un po’ per la ponderatezza tipica delle grandi menti creative di un tempo, si riuscivano a rendere al meglio certi stati emotivi senza necessariamente dover ricorrere a un punto di vista “altro”, clamoroso, eclatante o che vedesse il protagonista ritrovarsi a guidare a 90 gradi, a maggior ragione in mancanza del resto. Oppure si mostravano eccome, quegli stati emotivi, ricorrendo proprio a questi artifici, ma in tempi in cui erano considerati una novità, una sperimentazione, e comunque con una saggezza che non si può raccontare neanche mediante l’analisi più approfondita. Ma si sa, spesso più si va avanti lungo la linea del tempo, più si va indietro, e si finisce per diventare didascalici distintamente. E’ il caso della parte finale del film, che conferma come l’idea di partenza, percepita precaria durante l’intera storia, sia lontana dalla perfezione. L’epilogo è fastidiosamente svelato, atto a evitare che lo spettatore possa sentirsi disorientato, incapace di avere prima selezionato i pezzi più significativi e poi di averli assemblati adeguatamente. Addirittura colpevole che possa essergli sfuggito un significato globale. A differenza, ovviamente, di Stringimi forte, in cui basta un’attesa in un Bed & Breakfast riproposta allo spettatore più volte, e una scena costruttivamente perfetta (esplicativa, sì, forse più di quella finale nel film dei gemelli italiani, ma che ad ogni modo si congiunge perfettamente, più coerentemente e in maniera omogenea col resto) per comunicare inquietudine, stati mentali alterati e straziante dolore interiore.

I fratelli D’Innocenzo sembrano essere diventati, in una tendenza molto spesso esclusivamente italiana, un vero e proprio fenomeno (pure particolarmente e caratterialmente estetico) su cui pare si voglia scommettere ancora, ma che forse, furtivamente, risulta molto più condizionato di altri più commerciali. Come se si sentisse la voglia di valorizzare la “diversità”, nel senso più propositivo del termine, a condizione però che alla fine del tunnel la luce sia fatta brillare da un “telefonata”, quella di un giornalista, già apparso precedentemente nel film soltanto a livello uditivo, che spiega allo spettatore l’epilogo della vicenda. L’apoteosi dell’anti-scrittura creativa. E’ un po’ come se si dicesse loro: «Ok, facciamo un film autoriale, con sceneggiatura e montaggio scombussolati: tipo Memento. Però con lo “spiegone” finale, altrimenti si rischia che la gente non ci capisca niente.» All’italiana, appunto, in un clima più generale in cui non si rischia mai effettivamente.

Favolacce è certamente molto più interessante di quest’ultimo film, sia da un punto di vista formale che contenutistico, sia da un punto di vista stilistico che narrativo.

Ai Fratelli D’Innocenzo, però, va riconosciuto il merito di aver dato ancora una volta importanza al sonoro, e in un modo che è interessante, contrapponendo l’efferatezza del timbro a una vaghezza tipica di un certo realismo, a un ascolto ovattato. Sia in America Latina che in Favolacce in particolar modo, viene costruito un “paesaggio sonoro” ambiguo, attraverso qualcosa che spesso viene considerato un difetto, ma che invece è quotidianità, inafferrabilità, ineluttabilità (direbbe Ghezzi di Ozu), in un’atmosfera in cui il suono dell’acqua nello scantinato, ad esempio, o quello incalzante e manipolato di un pianoforte irrompono con chiarezza e definizione rendendo il sentimento immersivo, avvilente: nel complesso alienante. Anche quando si fa fatica a sentire. Soprattutto quando si fa fatica a sentire. Persino per quanto riguarda la colonna sonora, metafora, forse, dell’incomprensibilità evasiva del tutto, sia esistenziale che intrinseca alla vicenda narrata. I Fratelli D’Innocenzo lavorano per sottrazione, sia filmica che narrativa, ma improvvisamente si scatenano picchi di qualità del suono (le urla della bambina, ad esempio), a volte attraverso il silenzio, come forse avrebbe fatto notare John Cage. Un plauso, sicuramente, ma lontano anni luce dal Primo Amore di Matteo Garrone e dalla sua maestria direttoriale, in particolar modo grazie al talento espressivo di Trevisan. In Primo Amore, l’impenetrabilità della voce e della parola era di matrice attoriale; qui è tecnica e intenzionale, come se sulla voce di Elio Germano si agisse in post-produzione o come se gli si chiedesse di parlare particolarmente piano in una determinata scena e su una determinata battuta. A tratti risulta però funzionale, come avveniva già in Favolacce.

La terra dell’abbastanza, invece, era un film sicuramente meno eclatante ma con una sostanza primaria e con un talento interpretativo coeso.

Per quanto riguarda lo stile, le atmosfere sono sempre più conformi alla forma già imposta da Nicolas Winding Refn o da Gaspar Noé, come testimonia Julia Ducournau e il suo ultimo film Titane, a riprova di come lo stile dei primi (se non proprio inizialmente sottovalutato, quantomeno snobbato) stia dando risultati “accademici” e formativi nel tempo. Ma l’eccessiva prossimità è certamente un rischio.

Tornando ad America Latina e alla scena che vede il protagonista confrontarsi col padre, risulta stereotipata, nelle parole e nei fatti, e fa venire in mente Grassadonia e Piazza e il loro Sicilian Ghost Story, in cui la protagonista, parlando alla propria madre, usa un linguaggio lontano anni luce da qualsiasi “sicilianità”, quantomeno in un filone parzialmente realistico a cui i registi vorrebbero appartenere. Problema già abbondantemente riscontrato nel primo film: Salvo. Ma anche in Il talento del calabrone di Giacomo Cimini, in cui il protagonista farebbe “saltare le cervella” a qualcuno. Scene finte, artefatte su temi banali, danno l’impressione che certi registi si perdano in un bicchiere d’acqua, avendo fatto molto meglio altre cose nettamente più impegnative. America Latina, nel titolo, rimanda a un altro mondo oltreoceano e, probabilmente tradendosi, a un altro cinema, forse lontano da uno stile proprio e spontaneo.

Pleasure, di Ninjia Thyberg


Il porno è un tema a me molto caro, per svariate ragioni, ma non per i motivi che si possono facilmente immaginare. Mi appassiona per gli ambigui aspetti filmici, psicologici e relazionali, e per quelli legati alla sessualità e alla profondità di ogni persona. Senza dubbio, la pornografia è un argomento che, per quanto particolarmente diffuso sia nella quotidianità degli uomini che delle donne, è ancora considerato un tabù. In Pleasure, riferito a inizio film a un viaggio di “piacere” negli Stati Uniti d’America, la regista svedese Ninja Thyberg ci pone, prima ancora del colloquio della protagonista con un agente di polizia in aeroporto, direttamente in medias res, catapultandoci nell’interiorità di Bella Cherry (nome d’arte), aspirante attrice porno interpretata incredibilmente da Sofia Kappel, attraverso un’esteriorità non vista, attraverso un POV uditivo imbarazzante (forse solo perché non evidente), impegnativo e spossante. Un miasma e marasma predittivo e quasi confidenziale di ciò che accadrà. E, coerentemente con la propria visione dell’argomento, la regista adotta lo stesso approccio per tutto il film.

I dettagli disseminati ovunque sono importanti, come quello che riguarda un attore presente in un set ma non coinvolto direttamente in una scena che bisogna girare e che, seduto, tiene la mano destra stretta in mezzo alle gambe mentre l’attrice si accinge a interpretare una parte con un altro attore, o come uno dei tatuaggi di Bella, a rappresentare un cappio.

Musicalmente, sembra di sentire la supervisione di Arvo Pärt per tutto il film, filtrato da una spiritualità e sacralità costanti, potendo “godere” di inserti ridondanti di musica sacra ogniqualvolta una scena appaia coinvolgente o, all’esatto opposto, “dissacrante”, anche se bisognerebbe definire meglio il termine “sacralità”. Sempre riguardo al sonoro, Sofia Kappel ha una voce rauca, il che dà un tono maggiormente graffiante all’intera ascesa (non senza difficoltà) della protagonista. Un po’ come quella di Vanessa Kirby in Pieces of woman conferiva profondità esistenziale al proprio accaduto.

La regia è oltremodo esplicita, non tanto per le scene di sesso che non appaiono effettivamente reali (trattandosi di backstage di vari film in un film) o delle parti intime mostrate con naturalezza e semplicità, ma per una movimentazione dei gesti nell’interazione tra i personaggi, che siano intime (con sé stessi o tra amiche) o professionali. Contenuti espliciti, quindi, ma più per l’intimità della protagonista intesa come interiorità. Visivamente e registicamente ci si rifà senza dubbio al coraggio in altri tempi di Gaspar Noé, Lars Von Trier, nonché ad altre pellicole sull’argomento, quali Boogie Nights di Paul Thomas Anderson, Lovelace e non solo (gli esempi sono innumerevoli). Ma sembra che il film, in realtà, abbia come riferimento lavori in apparenza completamente diversi, come Black Swan di Darren Aronofsky, The neon demon di Nicolas Winding Refn o il più datato Showgirls del 1995. Il film di Ninja Thyberg, infatti, tratta sì di sessualità, di mortificazione della femminilità, ma privilegia particolarmente e visceralmente l’arrivismo e la fama dell’apparire in epoca social, attraverso continui rimandi alle pubblicazioni online, ai followers e a tutto ciò che ne consegue, alla stregua delle ambizioni di qualsiasi youtuber odierno (contenuti a parte), il tutto trattato però in modo non didascalico. Ma la regista svedese, a mio avviso, fa molto di più. Da un lato, include nel cast tutti veri attori del mondo del porno, così da immergere Sofia Kappel in un’atmosfera di continuo disagio, di non familiarità, e dall’altro scava in profondità verso una interiorità della protagonista che non soffre di traumi specifici derivati dal proprio passato a noi però sconosciuto, e di cui analizza quasi documentaristicamente la propria (e comune) precarietà esistenziale dell’approccio espositivo di oggi, una vetrina con un vetro perennemente sporco, sagomato e scheggiato. Ci si può scandalizzare per la presenza di droghe, per la sessualità esplicita (in realtà neanche tanto), ma è severamente vietato farlo per il solo fatto di veder localizzata la protagonista sempre da un’altra parte rispetto a dove vorrebbe essere (prima deduttivamente in Svezia, poi negli Stati Uniti d’America, prima in un set e poi no, e sempre con lo stesso malessere dentro). E’ vietato scandalizzarsi per quel sentirsi un pesce fuor d’acqua, o addirittura incapaci di localizzarsi, perché riguarda moltissima gente che non fa neanche lontanamente parte del mondo dei film per adulti. In effetti, credo che l’intento del film non sia criticare un ambiente che può generare malintesi e disagi, fino a provocare violenza e morte ma anche successo e serenità, ma l’approccio intrinsecamente autolesionistico che invece può causare il resto. In molti, oramai, fanno uso abituale di sostanze stupefacenti, e un numero enorme di uomini e donne guardano solitamente film porno. La critica, è rivolta più che altro a una frenesia che non ci permette di ragionare, di pensare in quanto esseri umani in linea con la nostra vera natura, deficienza che diventa apparenza e trasposizione a una identità altra, non connaturata ma emulativa, dovuta probabilmente a una mancata accettazione della precarietà dell’esistenza umana. In particolar modo nel mondo più adolescente, anche se tale disorientamento dipende da come il mondo adulto abbia fatto sistematicamente lo stesso anni prima. Di primo acchito, allo spettatore potrebbe sembrare tutto una novità, ma non lo è, e il vero disagio è dovuto al nonsense sul perché lei si comporti in un certo modo, sul perché di tanto arrivismo e apparenza, sul perché di un tale esistenziale disagio, come se stessimo cercando di dipanare la trama di un thriller. Perché tale disagio forse è specchio di molti spettatori di qualsiasi età. Si può essere attori porno o avvocati, vivere in Italia o negli Stati Uniti: se c’è un problema di fondo ci si sentirà fuori posto dovunque. Sarà la protagonista ad avere un problema interiore o è il mondo (porno e non solo), malato? Il vero disagio è la mancanza di un filo conduttore ideologico ed esistenziale, fino all’assenza di umanità. Forse fino al finale.

Un film che proietta protagonista e spettatore in un’inusuale finzione di una struttura a frattale, in una matrioska contemplativa che, scoperchiandola, aiuta a scendere negli inferi della profondità: la finzione del porno, nella finzione del film, nella finzione delle varie realtà. E proprio all’interno di questa stratificazione, la regista contrappone umanità a disumanità (e alla disumanità nella finzione), contrapposte a loro volta a una umanità occasionale e di fantasia. Ci si chiede allora se una certa violenza sia reale o meno, se una certa solidarietà sia provata o meno. Se certi obiettivi di ognuno di noi siano reali o meno. E ci si perde, ci si disorienta intimamente insieme alla protagonista. Forse, uno dei pochi difetti del film sta nell’approfittare ogni tanto di una ridondanza dei luoghi comuni già collaudata (ma di cui non ci dovrebbe stancare mai), ma il resto confonde e sconcerta adeguatamente, così come dovrebbe fare, risparmiando una piccola riserva su quanto possa essere condannabile o meno proprio il fatto che si passi da finzione a realtà nel film e nei set dentro al film, quasi con fluidità.

Ad ogni modo un’ascesa, in cui la competizione del Cigno nero di Aronofsky isola Bella Cherry fino a trasformarla proprio in quell’animale, metaforicamente (e non solo) in un maschilismo alterato, in cui si specchia, questa volta non metaforicamente, a consolidare o a mettere in dubbio la sua fragilità e identità (una trasformazione a cui molti di noi, soprattutto i più giovani, sono sottoposti e peggio ancora inclini), a identificarsi nel carnefice di cui lei stessa era la prima vittima, pur di sopravvivere, coinvolgendo chi era in competizione spietata con lei in una complicità successivamente tradita (o no?). Ne rimane una distorsione attuale: finto film porno, finto film cinematografico o finta realtà?

Un film importante per il significato metaforico lontano dalla sfera della pornografia, sul desiderio e tentativo, al di là degli eccessi, di generare dolore, su sé stessi e sugli altri, unica strada ingenua e vana per non provare dolore.

Forse non un film di alta raffinatezza a-critica come L’Événement di Audrey Diwan sul delicato tema dell’aborto, che non giudicava affatto “La scelta di Anne”, ma comunque uno sguardo attento e ossessivo sulla crisi esistenziale di molta umanità contemporanea.

ENNIO: genio o (genio) venduto?


Al di là del titolo parzialmente provocatorio, cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia. Questo è quello che più o meno traspare dalle parole del Maestro Ennio Morricone, che si apre al mondo nel documentario di Giuseppe Tornatore a lui dedicato. E in fondo la musica è matematica. Il risultato non cambia perché, come lo stesso Morricone dice, non sono più tanto importanti le note, quanto la capacità del compositore di combinarle tra loro in merito alla sua visione e alla sua sensibilità creativa. Il documentario di Tornatore non lo definirei bellissimo o commovente, né tantomeno brutto. E’ “giusto”, umile, onesto, discreto e sincero nei confronti di una personalità dal valore musicale e umano inestimabile. Un’opera, il cui difetto peggiore è la durata di due ore e trenta minuti. Forse perché si ha sempre l’impressione di non avere saputo abbastanza, sulla carriera immortale di Morricone. Non lo definirei particolarmente bello, perché mi sarebbe piaciuto un maggiore spessore creativo da parte di Tornatore, trattandosi di un lavoro dedicato a uno dei più grandi geni della storia dell’umanità. L’inizio, per esempio, è geniale. Ma non abbastanza, anche se qui si rischia di cadere nel de gustibus. E’ geniale l’idea di sovrapporre il gesto direttoriale agli esercizi di Morricone mentre è disteso sul pavimento di casa sua, a voler testimoniarne la personalità particolarmente eclettica; il fatto di mostrarcelo per un istante (ma per un istante soltanto) senza il suo caratteristico paio di occhiali, rendendocelo concettualmente nudo e irriconoscibile. Ma personalmente ho trovato inutili, ridondanti ed estremamente comuni i pareri di musicisti, produttori e registi a inizio documentario, perché riferiti a qualcuno che non ha alcun bisogno di presentazioni, ma di accostamenti interiori, compito che però successivamente Tornatore assolve. Forse avrei preferito i tratti migliori dello stile iniziale anche durante tutta l’opera, ma non giudico questo particolare aspetto, visto il coinvolgimento emotivo del regista-amico e considerata l’umiltà (anche registica) con cui affronta la narrazione. Al contrario, non è un lavoro che definirei neanche lontanamente brutto, perché ritrae a fondo la personalità pubblica e privata di Morricone in modo chiaro, coerente, educato ed equilibrato. Lasciando un sorriso umano e costante sul volto dello spettatore. Infine, non l’ho trovato un documentario cinematograficamente toccante, perché ad essere commovente è principalmente il Maestro. Si potrebbe dire che la colonna sonora di quest’opera non sia la musica di Ennio Morricone, quanto la sua commozione piacevolmente perseverante, filo conduttore di una sua interiorità e della sua musicalità, umana e professionale, che poi è quella che tutti noi abbiamo sempre conosciuto e ascoltato.

C’è però una complicazione. O meglio, una contraddizione insita nell’apprezzamento dell’opera e del soggetto fotografato. Uno dei meriti immensi di questo lavoro di Tornatore, è la sua capacità di sedimentare e di creare nel tempo spunti di riflessione sul tema della creatività, in particolar modo in merito alla sua fruizione. Morricone a un certo punto racconta che nel comporre una colonna sonora per un film di Elio Petri, la sua sua scrittura ha preso vita autonomamente, definendosi in due melodie sovrapposte apparentemente “all’insaputa” del compositore. Lo stesso si può dire dell’opera di Tornatore, pregevole nel dirigere il suo documentario affinché a un certo punto, finiti i titoli di coda, cresca autonomamente sedimentandosi nell’interiorità degli spettatori, suggerendo spunti di riflessione non banali e accurati. Come lo fa? Eludendo qualsiasi eventuale giudizio.

Ma tornando al problema: da musicista di jazz e di musiche d’avanguardia, la riflessione che traspare dalla visione di Tornatore è che la società, sia italiana, estera, musicale o civile, non ti accetta mai per quello che sei. Mi è capitato spesso di essere denigrato o deriso per la mia musica. Quando da ragazzo suonavo musica jazz, la cosa che mi sentivo dire più spesso era che non è una musica facile da comprendere, e mi si chiedeva di cambiare genere. Quando ho cominciato a suonare musica d’avanguardia (noise, improvvisazione radicale, ecc), non perché mi fosse stato chiesto ma per un interesse personale, quello che mi sentivo dire più spesso è che è una musica folle, e mi veniva chiesto di tornare a suonare la musica jazz (quella che non era facile da comprendere). Come se ci si sbalzasse da sé in una scala di valori propria e a piacimento proprio, a seconda del proprio umore e di una propria (non) ideologia cangiante. O di un ordine di accettazione in relazione agli altri. Per ascoltare o per suonare musica d’avanguardia, infatti, bisogna essere “coraggiosi”. John Cage, uno dei precursori e massimi rappresentanti della sperimentazione, deriso pubblicamente da Mike Bongiorno a “Lascia o raddoppia” e citato dallo stesso Morricone (e che ha influenzato enormemente il suo lavoro per tutta la vita), nel 1961 ha scritto: “I musicisti non ammetteranno che noi stiamo facendo musica; loro diranno che siamo interessati in effetti superficiali, o, al massimo, che stiamo imitando musiche orientali o primitive. I suoni nuovi ed originali saranno etichettati come “noise”. Ma la nostra risposta comune ad ogni critica dev’essere il continuare a lavorare ed ascoltare, fare musica con questo materiale, suono e ritmo, ignorando l’ingombrante, pesante struttura delle proibizioni musicali.” Anche Battiato è stato deriso da Pippo Baudo. Anche altri. In “Ennio”, Tornatore mostra, mediante una narrazione morbida e nello stesso tempo efficace, significativa e documentaria, nonché rispettosa della persona timida e riservata che ha davanti, come la bontà di un uomo come Morricone lo possa portare a oscillare sin dall’inizio tra l’accondiscendenza e la ribellione, tra l’acquiescenza per poter lavorare e la disobbedienza, la rivoluzione come disappunto, rabbia e rancore, come protesta, quasi come dispiacere per gli altri, come intolleranza nei confronti dell’accademismo più esasperato. Sana saccenteria e umiltà. Perché è così importante aver ritratto registicamente e cronachisticamente questo? Perché Tornatore mette il pubblico, chissà se consciamente o inconsciamente, dinanzi al dilemma del giudizio verso sé stessi, che nella relazione con gli altri è verso chiunque altro. Un giudizio di derivazione biblica. Quasi come “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Solo che qui non si tratta di espiare o di argomentare i peccati, ma di riflettere emotivamente sui pregi della persona umana. Di riflettere sulla genialità, sulle potenzialità di cui l’uomo è dotato e padrone nella sua fantasia e vitalità, e che genera vita connessa agli altri: piacere, malinconia, arte e creatività esistenziale. In sostanza, Morricone viene, a ragione (ma qui senza giudizio), ritratto come l’ennesimo genio gentilmente sfruttato (persino da Sergio Leone) e ambito da un processo civile di sopravvivenza, all’interno del quale l’opinione o la disapprovazione dei “critici” viene esternata come tentativo di conservazione, come quando uno Yorkshire abbaia ripetutamente davanti a un Rottweiler. Ed è impensabile che sia accaduto questo a Morricone, vista la sua carriera imponente. In questo, “Ennio” è un uomo in un certo senso tristemente conteso tra sé e sé, che inizialmente si dedica alla sperimentazione e che viene per questo allontanato da un evidente accademismo borghese presso cui ha inizialmente studiato. Allora si dedica alle colonne sonore, e viene ancora una volta alienato dallo stesso conservatorismo. Nelle proprie colonne sonore decide di sperimentare, e così viene pesantemente deriso, avvisato e decide così di tornare al precedente stile di composizione. Era contro la melodia, Ennio Morricone, anche se la modellava egregiamente. E pensare che impiegare i principi della musica dodecafonica nella musica tonale lo ha portato al successo. Poi vince un Oscar, praticamente a fine carriera, dopo anni di relativa “invisibilità”. Perché quando assecondi una certa commercialità (non è effettivamente il suo caso) puoi vincere qualsiasi cosa. E lo stesso avviene quando ad essere assecondata è la perseveranza verso una piccola nicchia di cultori o di appassionati di un deterinato genere musicale, letterario, pittorico o cinematografico. Ma quando si è entrambe le cose, quando si è straordinariamente completi, il mondo predilige un approccio più divisivo, si spacca, e diventa o umano o disumano. Tornatore insiste anche impercettibilmente sulla differenza tra vocazione e talento (nell’enunciazione di Hillman), ma questo è un capitolo a parte.

Qualche tempo fa, pubblicai una delle mie improvvisazioni d’avanguardia in un gruppo su Facebook. Venni immediatamente aggredito con insulti di diverso tipo. Mi fu scritto che la stessa cosa avrebbe potuto farla un bambino di un anno (neanche lontanamente vero) e che quei suoni e quelle frequenze sono mal tollerati dall’orecchio umano (allora io e milioni di persone appassionati di certi generi musicali saremmo del tutto alieni). Il tutto per non concedersi la necessaria pazienza di riflettere su una cosa nuova che, antropologicamente e paradossalmente, potrebbe minare la propria incolumità nei termini della sopravvivenza citata sopra. Il tutto per non esternare un proprio lecito “limite”: l’essere non educati alla varietà, non abituati alla diversità, al progresso e all’innovazione, condizione oramai più che frequente in qualsiasi campo, da quello culturale a quello lavorativo, da quello civile (con le aggressioni razzisti) a quello scientifico e religioso. In quell’occasione, spiegai che anche Ennio Morricone aveva sperimentato in quel modo a inizio carriera, e non solo.

E in questo emerge un altro aspetto romantico e graffiante di Tornatore nel ritrarre il Maestro: l’incisività e la perseveranza della creatività, ma anche il dolore intimo nel processare ognuna di queste proposte, ognuno di questi rifiuti, ognuna di queste critiche, ognuna di queste commissioni cinematografiche veicolate spesso da meri intenti di produzione, ignorando la genuinità del proprio parto creativo. Probabilmente, volendo andare oltre le intenzioni non giudicanti di Tornatore, l’opera, che brilla di luce propria, vuole spingere a una riflessione prolungata nel tempo e precisa: tutti coloro che amano Morricone e denigrano le strade “altre” che ha voluto percorrere per arrivare fin “qui”, dovrebbero ragionare sull’inclusività dell’iter culturale di ognuno. Non perché se si ama “Ennio” per le colonne sonore bisogna necessariamente amarlo per la musica d’avanguardia (o l’esatto contrario), ma per una forma di rispetto ampia verso ogni forma di formazione intima e personale che porta ogni essere umano al punto in cui arriva, e prosegue. A maggior ragione se il suo operato genera stima in quasi tutta la popolazione mondiale. Ennio, il documentario, e così la persona e il compositore a cui è sentimentalmente ispirato, è un trattato lieve di filosofia esistenziale con un delicatissimo intento di pedagogia, una prova di umiltà e di educazione nel rispetto dell’arte. Ma anche un inno e un invito alla modestia di chi si trova dall’altra parte dell’arte, dalla parte della creatività. La musica è una, e cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia.

Roberto Masotti, e l’umana fotografia musicale documentaria.

Quando le pagine social si popolano improvvisamente di troppe foto di una persona sola, vuol dire che dev’essere successo qualcosa: la persona ritratta ha compiuto un atto eroico, o è morta. Se poi il giorno in cui muore è il 25 di aprile, a primo acchito non si sa se attribuire l’immagine a quella ricorrenza o meno. In fondo l’arte è un atto eroico, e in fondo si muore.

Quando conosci una figura artistica, creativa, storica e monumentale come Roberto Masotti, l’ultima cosa che ti aspetti è che ti chiami per proporti di suonare con lui e con altra gente che stimi. O che ti telefoni, dal momento che in un post su Facebook hai scritto che il Köln Concert di Jarrett forse è il disco più bello che abbia mai ascoltato, per dirti che forse è così anche per lui. Ma solo dopo averti preso un po’ in giro: “Ti rendi conto di ciò che dici? Attento!”.

Solo che lui, Roberto Masotti, Jarrett lo ha fotografato, lo ha seguito per anni, ovunque. Jarrett, Keith Jarrett, una delle personalità musicali più difficili e più riservate che esistano sulla faccia della terra, una di quelle persone che spesso vengono apostrofate con “Sarà anche uno dei migliori musicisti in circolazione ma è veramente un pezzo di merda”, come mi è capitato di sentire più volte. E Roberto Masotti lo ha fotografato nelle circostanze più disparate, ritraendolo nei momenti più intimi, più spirituali e in quelli pubblici, da quelli in cui appariva più spigoloso a quelli in cui sorrideva. Sempre con un occhio vigile alla documentazione, nel senso più esteso del termine. Chi ha una concezione moderna della fotografia tutt’altro che filologica, quella asettica, apatica e anaffettiva malgrado l’epopea dei colori, delle post-produzioni e delle instagrammizzazioni varie, anche se la foto è comunque in un bianco e nero effettivo e apparente, crede che fotografare significhi solo esasperare qualcosa, porla in una dimensione altra affinché, forse inconsapevolmente, l’ego dell’autore stesso emerga molto più del soggetto stesso. “Stesso”, una parola che in fotografia dovrebbe significare ogni cosa, e che invece non significa quasi più niente. Quasi, perché grazie a professionisti di una sensibilità altra e realmente creativi come Roberto Masotti abbiamo per noi un duplice gesto di estrema generosità, un’eredità umana e concettuale. Le foto di Roberto (ci) rimarranno come prova di un tempo e come prova di un modo di concepire l’occhio e la documentazione, che difficilmente si potrà rintracciare ancora in questo spazio creativo. La fotografia documentaria prescinde dalla composizione estrema, forse dalla fotografia stessa, dal sensazionalismo, pur senza rinunciare a una certa visione; prescinde dal tripudio ottico e da un interventismo orgasmico, che diventa invadente e veicolo di transizione della propria personalità narcisistica ad altri, che si infettano e diventano narcisisti anche loro, persino nell’apprezzamento delle fotografie altrui. “Ohhh”! Ecco, quell’”Ohhh!” nella fotografia di Roberto Masotti bisogna dimenticarlo, non c’è, e la sua assenza trasforma chi osserva da potenziale narcisista patologico dell’apprezzamento (ammesso che lo si sia) a testimone di sé stessi e degli altri. “Stesso”, come uguale, ma anche “stesso” come sé stesso o come te stesso; uno specchio: tra l’autore, il sé stesso e il sé stesso di chi è fotografato. Se ne parla, in modo più generale, anche ne “Lo specchio vuoto – fotografia, identità e memoria” di Ferdinando Scianna, edito da Edizioni Laterza. La fotografia di Roberto Masotti è documentaria e perfettamente composta nello stesso tempo, istintiva e architettata a dovere, opera d’arte soggettiva e oggettiva. Ogni cosa al suo posto, come se ce l’avesse messa lui. Ogni cosa al suo posto, compreso lui. E si rimane lì ad osservare le foto, e viene spontaneo dire: c’è stato. C’è stato un evento, un artista e soprattutto c’è stato Roberto Masotti, lì, con la sua macchina fotografica. Ovunque, a testimoniare che tipo di luci erano state usate in quel determinato contesto, che sforzi interiori aveva provato un determinato artista sul palco, che atmosfera si respirava, come veniva preparato un piano in una performance di musica improvvisata, come l’uomo creativo si considerava nel bulbo della sua esecuzione, prima, durante e dopo. E si può, se non sentire, percepirne l’esecuzione. Una collocazione spazio-temporale che è storia, per chi non lo avesse ancora intuito. E la storia è l’asse portante del tempo. Certo, anche altre forme ideologiche di narrazione per immagini vanno profondamente apprezzate, ma i tempi moderni ci portano sempre di più ad allontanarci dal considerare la finezza d’animo come strumento di indagine costruttivamente vuoto, che così viene riempito dall’osservatore. Proprio come la gentilezza d’animo tipica di Roberto.

La fotografia documentaria prescinde dalla composizione in senso stretto, quella più maniacale, quella accademica e per molti incontrovertibile. E non a caso, Roberto si occupava anche di musica improvvisata, di avanguardia, così da mettere sullo stesso piano, quantomeno da un punto di vista ideologico, musica e fotografia.

E poi la sua costante, lecita e determinata battaglia contro gli usurpatori della proprietà intellettuale. Spesso venivo attratto dalla bellezza di una fotografia in un blog, in un sito, in una pagina Facebook o sotto a un determinato articolo musicale. Capitava, spesso, che quella foto l’avesse scattata lui, solo che nessuno lo aveva scritto da qualche parte, a volte nessuno ne era addirittura al corrente. Quando finivo di leggere il post, solitamente il primo o uno dei primi commenti era di Roberto che ammoniva chi aveva utilizzato la foto a margine dell’articolo, chi ne aveva omesso data e autore, chi ne aveva omesso il rispetto, verso quell’opera, verso quell’autore e verso sé stessi. Perché può capitare a chiunque, solo in un altro ambito. Ho sempre prestato attenzione nel riportare il nome dell’autore di un’opera o di una fotografia, di qualsiasi genere essa sia, ma da quando ho cominciato a tenere quasi il conto dei disappunti di Roberto in merito a questo argomento ho sviluppato una certa maniacalità che mi porta a cercare ovunque il nome di chi ha scattato una fotografia che mi interessa in particolar modo e che vorrei condividere con altra gente, anche se si tratta di una foto di cronaca o di attualità. Se non lo trovo, se non so chi ha scattato la foto, tendo a non pubblicarla affatto. Ma lui si infuriava anche per un’altra ragione: la foto, alle volte, veniva utilizzata senza che fosse stata acquistata, senza che gli fosse stato chiesto il permesso di utilizzarla. E tra i commenti scriveva “Come la mettiamo?”. A volte pubblicava l’articolo sulla sua pagina e taggava l’autore o la redazione e li esortava pubblicamente: “Come la mettiamo?”. Ogni tanto scriveva anche “Siamo alle solite”, come se fossimo totalmente incapaci di renderci conto una volta per tutte davanti all’imponenza (quantitativa, non certo qualitativa) della digitalizzazione della fotografia e dell’educazione. Perché anche il buon senso può’ essere digitalizzato. Come se dietro a una foto ci fosse sempre un algoritmo umano, o un umano, ma pur sempre algoritmico. E non un fotografo vero.

Rispetto per la fotografia e per il proprio ingegno. Ecco quante cose è capace di insegnare una persona sola, soprattutto quando tutti gli altri trascurano le sfumature. Non si impara mai abbastanza, né dalla storia né dell’umanità, intesa come filantropia, come grandezza d’animo. Quelle sfumature che determinano una bassa paga per suonare a un concerto, per un biglietto acquistato per sentire un concerto, per un libro raro, magari una prima edizione di un capolavoro svenduto in una bancarella in centro, una fotografia sottovalutata o la proprietà intellettuale stessa. Ingegno e inventiva, soprattutto emotiva ed emozionale, di un artista, di un essere umano. Forse anche per questo nella sua foto profilo sui social c’è scritto “Art is work”.

Roberto Masotti se ne va a pochi giorni da Letizia Battaglia, altro punto di riferimento civile per il nostro Paese e non solo. Entrambi nati da una parte e vissuti in un certo senso da un’altra, realtà e dimensione, sinonimo di motilità e percorribilità della creatività e della curiosità impagabile e inappagabile, per sé stessi e per gli altri, e di un senso del dovere poetico e astratto, ma sempre attuale e determinante per la coscienza comune.

Quando mi chiamò in merito al post su Jarrett, parlammo di Caro Diario e di come Nanni Moretti avesse inserito parte del Köln Concert nelle scene in cui a bordo di una Vespa girava per l’Idroscalo di Ostia, dove Pasolini fu assassinato. Al concerto di un amico in comune, invece, mi parlò di una sua mostra a Palazzo Reale, a Milano. Era quasi dispiaciuto di non aver esposto alcuna foto che ritraesse un armonicista. In compenso, con la sua raffinata ironia mi disse che aveva ritratto una musicista mentre suonava uno strumento particolarissimo. In quell’occasione gli chiesi di autografare un suo libro che però non avevo con me, Jazz Area, edito da Seipersei e stampato in una bellissima edizione su cartoncino nero. Gli domandai se servisse una penna particolare per poterci scrivere su. “Una comune matita”. Una volta sentii dire a un organizzatore di eventi di essere soddisfatto di come era andato un concerto: “C’era Roberto Masotti! Ha fatto un sacco di foto! Pensi che si sarebbe preso la briga di venire se non ne fosse valsa la pena?”. Ecco come alcuni misuravano la qualità del proprio lavoro. Anche se credo che Roberto sarebbe andato pure a scatola chiusa, vista la sua inesauribile umiltà e curiosità, come d’altronde ha dimostrato altre volte. Una volta scrissi su Facebook qualcosa con un tono un po’ troppo agguerrito per i suoi gusti. Mi scrisse in privato e la conversazione fu ancora più costruttiva dello scambio di idee all’interno del post. Sempre grazie al suo garbo e alla sua autenticità. E mi ringraziò “dello scambio e della chiacchierata”. Lui, a me…

Lo avrei chiamato a breve per proporgli un progetto che avevo in mente da un pò, ma non mi andava di disturbarlo. Avrei voluto disturbarlo prima.

Lo avevo sognato, qualche settimana fa. Eravamo a una specie di mostra in una metropolitana, forse una sua mostra. Ad oggi ricordo ben poco, solo che ci siamo seduti sui gradini all’ingresso. Lui aveva la sua macchina fotografica ed era spuntato da dietro una colonna, quando nessuno se lo aspettava, proprio come il 25 di aprile, ma in direzione opposta. E la gente lo osservava come si osserva una personalità alquanto importante. Io ero contento, perché ero seduto accanto alla sua personalità importante.

Fotografo ufficiale alla Scala di Milano per diciassette anni insieme alla moglie Silvia Lelli, autrice anche lei di libri e di fotografie meravigliose, di installazioni, video e non solo, ritratta in una bellissima foto scattata alla fine degli anni Sessanta, e che Roberto definiva la sua foto più bella di sempre. E poi la sua significativa collaborazione con Ecm, la rivista Gong, le copertine dei dischi di innumerevoli artisti pop, di musica classica, di musica d’avanguardia e non solo; poi le pubblicazioni, le mostre internazionali, i concerti e infinite altre cose.

Diviene d’obbligo, per chi non lo avesse ancora fatto, acquistare i suoi lavori, tra cui gli ultimi: Jazz Area, quello su Keith Jarrett, su John Cage e su Franco Battiato.

Dovremmo imparare a considerare di più l’umiltà, degli scatti, nostri e degli altri, della nostra creatività più in generale rispetto a un’estetica compensativa, senza sottovalutarla mai, la creatività, ma conferendogli significati di competenza e di profondità. E lo si fa, ci insegna abilmente Roberto, con la curiosità, con l’umiltà, con la cultura, con la costanza, con l’educazione, con la discrezione e con una professionalità senza pari. Senza giudizi ostinati o semplicemente fini a stessi.

L’impressione in merito alla sua scomparsa, per me, è paragonabile a quella provata quando da bambino salivo su un determinato gioco alle giostre, e non appena finiva mi domandavo come mai fosse già finito. La sensazione che resta è di non averlo vissuto abbastanza, di non averne vissuto l’arte, abbastanza.

Questo articolo è privo di una sua foto, perché non posso più domandargli il permesso di utilizzarne una.

Letizia Battaglia. Abbiamo constatato che il cadavere è defunto.


A Palermo, avevo una nonna che abitava in viale della Regione Siciliana, una circonvallazione semi-alberata a più carreggiate che collega due parti opposte della città, che mette in comunicazione l’aeroporto Falcone-Borsellino con la città e la città con l’autostrada Palermo-Catania, senza mai dover svoltare da qualche parte. Il 23 maggio 1992 avevo undici anni, e me ne stavo affacciato al balcone di casa di mia nonna a guardare le auto scorrere in un verso e nell’altro. Spesso facevo così, e osservavo le macchine incolonnate a causa di un semaforo che poi, molti anni dopo, fu finalmente disattivato. Guardavo se qualcuno si metteva le dita nel naso, se il conducente litigava con un passeggero o con qualcuno nella macchina accanto, se la gente in moto aveva il casco o meno, se le auto si fermavano per far passare i pedoni. Il 23 maggio 1992, improvvisamente, il traffico, circolare e vivace già di per sé divenne incredibilmente più intenso, e si popolarono cielo e terra. Elicotteri tra la fila di alberi della circonvallazione, ambulanze, auto della polizia e dei carabinieri a sirene spiegate sulle corsie preferenziali o tra il traffico stesso, se le corsie preferenziali erano già abbondantemente occupate dagli automobilisti. O da altre forze di polizia. Il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta erano stati coinvolti in un attentato a Capaci. Rimasi lì a guardare per ore, per cui è probabile che abbia visto passare l’ambulanza con dentro Giovanni Falcone, morto poco dopo all’ospedale Civico di Palermo, dalla parte opposta rispetto al luogo dell’attentato. L’indomani, a scuola, il maestro ci parlò con garbo, rispetto e ponderatezza dell’assassinio. Mentre passava tra i banchi a distribuire un compito che avremmo dovuto fare, gli dissi che probabilmente mi era passata davanti l’ambulanza con dentro Giovanni Falcone, come se fosse quasi motivo di vanto, per me. Il maestro non rispose. Pensai che non avesse capito o sentito, e allora provai a ripeterglielo altre due volte. Abbassò la testa con lo sguardo perso nel vuoto; o mi guardò. Non mi ricordo più. 

Qualche giorno dopo, guardai in televisione le ultime scene di un film che raccontava di alcuni teppisti statunitensi muniti di Harley-Davidson seminare il terrore on the road. Entravano nelle case, rubavano, uccidevano e violentavano donne. Quando mia madre si accorse che stavo guardando quel film spense immediatamente la televisione, ma il film era praticamente finito. Prima dello schermo buio, apparve una scritta in bianco: “La banda, ad oggi, non è stata ancora arrestata”, a testimonianza del fatto che il film era tratto da una storia vera. Provai a pensare ad altro, ma quella notte non riuscii a chiudere occhio. L’indomani cedetti e scoppiai a piangere, terrorizzato dal fatto che da un momento all’altro i teppisti, dagli Stati Uniti, potessero arrivare in Italia e in particolar modo a Palermo, in Harley-Davidson. Ma soprattutto che con quelle stesse moto potessero salire al quinto piano del condominio in cui abitavo con la mia famiglia. «E se dovessero violentare mia madre?», mi domandai. Ma mia madre prontamente mi rassicurò, dicendomi che, intanto, si trattava di un film, e che molti degli episodi erano in un certo senso esasperati per esigenze narrative e cinematografiche; poi, che nel caso in cui i teppisti fossero scappati in Italia avrebbero comunque dovuto viaggiare in nave, se fossero voluti venire sulle loro Harley-Davidson, che ci sarebbe voluto molto tempo e che, visto che erano ricercati, li avrebbero arrestati senz’altro appena giunti nel nostro Paese. Poi ancora, che salire le scale dal piano terra al quinto piano con un’Harley-Davidson (cosa che avveniva nel film su piccole rampe di scale fuori da una tipica abitazione americana) era praticamente impossibile. «Certe cose succedono solo nei film». 

A diciotto, diciannove anni feci il mio primo viaggio all’estero: Budapest. Andai con il mio migliore amico, e una volta arrivato in città venni assalito da una sorta di depressione. «Sembra Palermo», dissi sconfortato a mia madre, durante una telefonata. Budapest, in realtà, è divisa in due dal Danubio, un po’ come Palermo e la circonvallazione: da un lato c’è Buda, dall’altro c’è Pest. Sarà stata la stanchezza; sarà stato che venivamo da Praga, città piccola e meravigliosa quasi in ogni suo scorcio e visitata in un periodo di pieno sole; sarà stato che lì invece il clima non era proprio invitante; sarà stato l’odore intenso del gulasch di pesce, ma Buda, ai miei occhi, a tratti sembrava proprio Palermo. Certe vie senz’acqua mi ricordavano Panormus, il porto, con i liquami sotto forma di patina densa su cui non ti potevi neanche specchiare o gli angoli di via Roma, in cui si vedevano le prostitute, inumidite, oltre che dal sudore appiccicaticcio, anche dal giallo ocra di certi lampioni tediati, coerenti con le facciate degli edifici attorno annerite di smog. Almeno a Catania hanno l’Etna. Dall’altra parte del Ponte delle Catene, la “città” di Pest mi riempì gli occhi. 

Letizia Battaglia diceva che a un certo punto sentiva il bisogno di doversi allontanare il più possibile da Palermo. Allora andava a New York o in giro per il mondo, a fotografare e non solo. Poi, improvvisamente e inevitabilmente, sentiva la necessità di tornare.  

Quando diventai più grande, i teppisti del film che avevo visto quando ero bambino non mi facevano più paura; e neanche i ladri o i fantasmi. E neanche i mafiosi, in realtà, considerato il fatto che sarei voluto diventare un magistrato antimafia e che per un periodo ho anche studiato per quello. Anche se da ragazzo fui a un passo dall’acquistare una moto simile a un’Harley, da un amico che ne vendeva una. 

Mi viene sempre in mente il dilemma su chi sia nato prima, l’uovo o la gallina. Allo stesso modo mi sono sempre chiesto: è Palermo che con la sua geografia e storia genera malinconia e disattenzione nei suoi confronti o, al contrario, se siamo noi a infondere trascuratezza a Palermo di rimando essa si configura così come la conosciamo, e ci evoca quel senso di irrequietezza talmente ampio e quantistico da approfittare di una sua non località da toccarti anche se sei dall’altra parte del mondo? Nostalgia o ostilità, ricordo o disprezzo, risentimento, avversione che sia. Come si dice, l’importante è che non sia indifferenza. Siamo sicuri che non sia indifferenza? Indifferenza verso un decadentismo ideale, come alla fine de “La città ideale” di Luigi Lo Cascio, verso un ammasso di ferraglia in versi: strade, palazzi, spiagge, giardini, dimore, vicoli bui e impestati di piscio, odori e onde del mare in un verso verso cui le onde degli altri mari non vanno; inaudita bontà, vocazioni e talenti, ironia ed eclettismo, disponibilità. Carreggiate che portano ovunque, ma senza le carreggiate. Versificazione e scarificazione. No. E se fosse indifferenza sarebbe certamente di aiuto. Molteplici cose: fisiche, architettoniche, ingegneristiche, ma anche etiche, esistenziali e comportamentali. 

Ed è proprio attraverso le foto di Letizia Battaglia che si riescono a cogliere e anche a raccogliere i frutti di questa mise en abyme, entro cui, come in un’architettura escheriana, non esiste ingresso e non esiste uscita, non esiste inizio e non esiste fine, quantomeno concettualmente. Palermo è più il labirinto di Shining di Stanley Kubrick: verde e ghiacciato, dentro cui ci si perde, dentro cui si uccide, e si muore. Non soltanto effettivamente. 

Auto in tripla fila, le sterpaglie ai lati delle strade incastrate nei guardrail storti, divelti o addirittura mancanti, le facciate degli edifici sporche e pericolanti. Cosa c’entra tutto questo con le foto di Letizia Battaglia? Cosa c’entrano la circonvallazione, i teppisti statunitensi in moto, il viaggio a Buda e a Pest, il dilemma sull’uovo e la gallina? Forse il fatto che, oltre ai soggetti, a essere ritratto è sempre e comunque il contrasto tra un’esistenza globalizzata e il contesto, irriproducibile altrove, anche per eventuali esigenze cinematografiche, come quella volta che riconobbi Palermo dal selciato e da una scarpa a terra in una foto del ’59 di Sergio Larrain. Identico e fine a se stesso, il contesto, vuoto e trasandato e allo stesso tempo pieno, anche se dovesse trattarsi di cassonetti che rigurgitano spazzatura. Nelle foto di Letizia Battaglia, non c’è soltanto la narrazione che probabilmente l’ha resa famosa in tutto il mondo, quella cioè di gran parte del fenomeno “mafia”, ma la storia della città, quella nostalgia sopracitata, quel sentimentalismo melodrammatico e quel disinteresse che nessuno capirà mai, se non ci è nato sotto. Un po’ come la saudade in Brasile. Che poi, Palermo è anche un quartiere di Buenos Aires, costituito da zone come Palermo Hollywood e Palermo Soho. E l’esistenza globalizzata, negli occhi di Letizia Battaglia, quella che comprende la circonvallazione, i teppisti in Harley-Davidson degli Stati Uniti, Buda e Pest, sia l’uomo, l’uovo che la gallina, anche se non sono inquadrati, anche se non sono ritratti in foto. Quella presenza che ti porti altrove e che riporti sempre a casa, con la mente o fisicamente. E il marranzano, strumento nazionale della Jacuzia, ha origini siciliane o russe? Sembrerebbe russe.  

Diversi anni fa, lavorai a un progetto documentaristico, e per questo venni a contatto con personaggi che lavoravano al giornale L’Ora, in cui lavorò anche Letizia Battaglia negli anni di punta. Mi raccontarono diverse cose in merito alla sua carriera, soprattutto in quegli anni in cui si ritrovò a contatto con una rete di giornalisti e altri professionisti maschi. E una delle punte più tragicomiche di “maschilismo”, più come machismo ma dai risvolti anche relazionali, riguarda uno degli anatomopatologi che giravano tra un omicidio e l’altro. A testimonianza di quanto abitudinaria fosse diventata la morte in ogni angolo della città e di quanto la gestione della cosa (morta) pubblica sprizzasse sprezzo da tutti i pori, un medico legale, dinanzi all’ennesimo cadavere sottoposto ad esame, disse con tono tipico e inequivocabile: «Abbiamo constatato che il cadavere è defunto.»

Lei, Letizia Battaglia, femminismo e concretezza in antitesi al “maschilismo” citato sopra, continuava seriamente a documentare, come altri pochi sul campo, senza mai tergiversare, senza mai esorcizzare una paura che in realtà tutti abbiamo, anch’io. Dei teppisti statunitensi come dei criminali mafiosi, anche se la occultiamo per resistere e andare avanti. Ecco cosa c’entrano le Harley-Davidson coi morti ammazzati, col girarsi dall’altra parte e far finta di niente. El-Aziz, splendore e paura, infantilismo, anche in questo stesso racconto. La gente si incontra per strada e si scambia spesso parole futili, come se la serietà e la responsabilità fossero questioni molto pericolose, da delegare agli altri. E non solo a Palermo. 

«Abbiamo constatato che il cadavere è defunto.» Avrei voluto usarlo come titolo per il mio documentario, che purtroppo non fu mai prodotto per il quasi totale menefreghismo degli interessati. 

Molti anni fa, una delle prime volte che andai a Milano, tra una metro e l’altra parlai di fotografia con una ragazza. A un certo punto, in una fase un po’ confusa del discorso e in mezzo a uno sciopero generale, mi fa: «Voi lì, giù a Palermo, chi avete? La Batt… La Battaglia… lì, come si chiama?» 

E io, completamente sconnesso: «la bat… la battagl… la battaglia… i Vespri?»

Veicolati, polarizzati, vettorializzati. E se, il congiuntivo e Will Smith. 

photo© Getty Images

In Set it off, film di Gary Grey del 1996, Jada Pinkett (Smith) dà un violento schiaffo al fratello perché non andrà all’università. E alla fine del film si rasa quasi completamente i capelli. Qualcuno penserà che io stia facendo dell’ironia nettamente peggiore di quella fatta da Chris Rock alla scorsa notte degli Oscar, ma il discorso è molto più coerente di quanto si possa immaginare, particolarmente sottile, e assolutamente complesso. 

Perché l’animale sociale del buon vecchio Aristotele è fatto così. No, non Will Smith che ha colpito, dopo averci pensato due volte, Chris Rock. E neppure Chris Rock che ha esordito con una delle sue migliori battute (forse) su uno dei peggiori drammi di Jada Pinkett Smith, la moglie di Will. O sarebbe meglio Will Smith? Oppure bisognerebbe chiamarla Jada Pinkett e basta? O magari sarebbe opportuno dire che Will Smith è il marito di Jada Pinkett Smith? O che è il marito di Jada, Pinkett, e chi se ne frega se Smith o non Smith?

In rete, si susseguono post di chiunque contro o a favore di Will per lo schiaffo-cazzotto sferrato a Chris Rock. Schiaffo-cazzotto, perché si è aperta un’accesa disputa anche su questo. Probabilmente, nell’immaginario comune, uno schiaffo è qualcosa di più banale, rispetto a un pugno; di più fraterno, di più infantile, di più ironico, di più “femminile”, sia a livello attivo che a livello passivo, di più pedagogico quasi, mentre un pugno, come ha scritto qualcuno (senza però distinguere, va detto, tra un pugno e uno schiaffo ma tra un pugno e una battuta, seppur offensiva) è reato. Nell’immaginario comune uno schiaffo non lo sarebbe? Se si colpisce una donna con una mano aperta indubbiamente è segno di seria violenza, ma, parrebbe, che se si colpisce una donna con una mano chiusa, cioè con un pugno, è un gesto di particolare efferatezza, di particolare dolore. Come se violenza ed efferatezza fossero sostantivi di senso diverso. Un pugno è più pesante da digerire forse perché, sempre nell’immaginario comune, fa molto più male di un “semplice” schiaffo. Ed è agghiacciante perché un pugno sfonda e uno schiaffo spinge? Dipende da chi lo dà. E noi sempre qui a disquisire su cose così, perché è veramente importante, per molti, determinare se fosse uno schiaffo o più un pugno. A pensarci bene, gli uomini mica si prendono a schiaffi: si prendono a pugni. Quindi, secondo comune logica inconscia, se avesse sferrato uno schiaffo a Chris Rock, Will Smith si sarebbe comportato da femminuccia. Femminuccia, termine che, suppongo, derivi da femmina, donna. Sarebbe stato una femminuccia due volte. La prima, perché ha reagito violentemente a qualcosa che avrebbe potuto discutere a voce, ha perso cioè totalmente il controllo di sé (e in questo caso, il caso, andrebbe addirittura invertito e letto all’esatto opposto: non, cioè, come segno di mascolinità, ma di debolezza, femminile?!); la seconda, perché avrebbe dato uno schiaffo a Chris Rock. O magari, nel caso di uno schiaffo-cazzotto, perché non avrebbe dato al presentatore né convintamente uno schiaffo, né un pugno, convintamente. Sarebbe stato indeciso anche in questo. Anche. Ognuno di noi avrebbe saputo certamente che cosa sferrare. Lui no, indeciso. Indeciso, perché al di là dei pareri di rete, credo che il fulcro di questa discussione infinita sia l’indeciso Will Smith, di cui nessuno parla su questo piano. Ma siamo capaci di molto peggio, e non parlo di Smith.

Avete presente i mezzi su cui andiamo ogni giorno al lavoro, a casa o in vacanza? Le macchine, le auto: i veicoli. Che può voler dire mezzo e che può voler dire vettore. Un veicolo, però, meno particolarmente e più ideologicamente è un qualcosa su cui viene fatta passare un’idea, una sorta di ponte morale o immorale. I social, sono veicoli, mezzi di diffusione di idee, e dietro i social, come sempre, ci siamo noi esseri umani. Sui social, i personaggi-giornalisti più popolari fanno quasi a gara nel dire la stessa identica cosa nello stesso identico modo. Cioè non stanno gareggiando affatto. Ma fanno a (non) gara anche per un’altra ragione. I moltissimi opinion leader diffusi sul web parlano dello schiaffo-cazzotto a Chris Rock e non fanno che incitare il pubblico a schierarsi, come direbbe il buon Gaber, a destra o a sinistra, attraverso un’umanità nozionistica e frammentaria. Ma Gaber, uomo d’altri tempi, aveva capito tutto: cos’è la destra? Cos’è la sinistra? 

Chiunque sa perfettamente com’è fatta una pila, una batteria: ha un polo positivo da un lato e un polo negativo dall’altro. Polarizzare, vuol dire non rendere zona polare, dove si potrebbe morire di freddo, ma portare qualcuno da un lato o dall’altro della barricata, a destra o a sinistra, come cantava Gaber (anche se non era d’accordo). Veicolare quindi, in un senso più esteso, l’opinione di qualcuno su un piano o su un altro. 

In matematica, il vettore è una sorta di freccia. Nello specifico e in breve: un numero reale positivo e una direzione. Nonostante vettore e polarizzare, malgrado sostantivo e verbo, sembrino quasi sinonimi, vettorializzare significa tutt’altra cosa: deformare per dare forma ([Ri]disegnare). Forma che, evidentemente, non è quella da cui siamo partiti. Fare in modo che una determinata parte di qualcosa possa essere riprodotta all’infinito. Un cavolo romano, praticamente un frattale, una matrioska, ossia una struttura che si ripete in eterno nella medesima forma da cui si era partiti. Tipo i commenti su Facebook, tipo la serialità, tipo il conformismo. Tipo la monotonia.

E il pubblico, sempre lì a schierarsi banalmente da un lato o dall’altro. Mai a scavare nei fetidi anfratti dell’essenzialità, della completezza, della compostezza, dell’ideologia, della ragione umana e della filosofia, della conoscenza, della consapevolezza, della storia e del pensiero profondo. Sempre candidati modello tra l’opinione pubblica veicolata, polarizzata, vettorializzata. 

E per quanto riguarda Will, Jada e Chris? Tra i vari video che girano in rete, praticamente tutti mostrano (quantomeno fino a questo momento) l’ex (due volte) principe di Bel Air sorridere per poi subito dopo partire a grandi falcate in direzione di Rock, e sonorizzare con il suo schiaffo-cazzotto il suo disappunto alla battuta infelice indirizzata alla propria moglie. Il montaggio cinematografico hollywoodiano (è il caso di dire) lo mostra ridente e poi, un istante più tardi, alla volta di Chris. Credo che l’attenzione vada focalizzata su questo. Sulla parte mancante, su quello che tecnicamente in una sceneggiatura potremmo definire “antefatto”, vale a dire ciò che si decide di non mostrare ma che è già successo, che è parte integrante e portante della storia narrata e che, per l’appunto, incide pesantemente su tutti gli eventi di un ipotetico film. Ma, anche qui, prima, dobbiamo guardare da un’altra parte. Mentre Smith ride alle battute di Rock, la moglie sorride per poi cambiare espressione all’istante, avendo probabilmente compreso, interiorizzato e ammonito intimamente e discretamente la battuta del presentatore. Un antefatto mostrato in parte, in realtà. E allora, quale sarebbe il punto? La battuta? L’offesa? Lo schiaffo-cazzotto?

E se il punto fosse ancora il cognome? Jada Pinkett o Jada Pinkett Smith?

E se il punto fosse che Will Smith non sarebbe dovuto intervenire perché la moglie aveva già mostrato il suo disappunto attraverso una mimica inequivocabile (di cui forse al momento però lui non si è accorto)?

E se Will Smith avesse reagito perché, probabilmente, in quel preciso stacco tra una risata e uno schiaffo-cazzotto deve aver visto la donna palesemente offesa e mortificata? Che ci sia stata una battuta tra i due o uno scambio di sguardi? Tipo, non so: “Cazzo ridi, coglione?”.

E se il punto fosse che Jada Pinkett non è che non sia stata capace di difendersi autonomamente, come avrebbe pensato Will Smith, ma che si sia difesa fin troppo e fin troppo bene, attraverso una raffinatissima e lecita (ma non fino al pugno) manipolazione (anche se inconscia) dell’uomo, suo “manichino” più di quanto lui stesso possa immaginare? Come in Secretary, film del 2002 di Steven Shainberg in cui la protagonista, come si evince dalla scena finale, ha il pieno controllo psicologico e fisico del protagonista, sia per quanto riguarda le pratiche di bondage che entrambi amano praticare, sia per quanto riguarda ogni loro collocazione esistenziale su questa terra e in questa vita. 

E se Jada Pinkett non fosse essere stata neanche lontanamente consapevole di una sua eventuale autorità nei confronti del marito Will?

E se Jada Pinkett avesse creduto di non potersi difendere autonomamente da spingere inconsciamente il marito a farlo per lei? 

E se Smith avesse reagito per il senso di colpa indotto dalla sua stessa risata alla battuta di Rock, e per il senso di colpa nei confronti dello stesso Smith, cioè di sé stesso, per non essere riuscito a far sentire la moglie intimamente protetta evitando di palesare spontaneamente le pieghe del viso in una risata esplosiva, ma palesandosi invece in una incazzatura tardiva?  

E se Smith ci avesse pensato consapevolmente due volte prima di alzarsi e raggiungere Rock?

E se il punto fosse che Smith abbia raggiunto Chris Rock?

E se fosse tutta una farsa hollywoodiana?

E se. Punti, problemi, dubbi e contraddizioni, ma noi sempre fieri di sentirci così: veicolati, polarizzati e vettorializzati. E sicuri. E incapaci di contemplare un eventuale “se” ipotetico supportato da un congiuntivo tipico dell’universo interiore, abitudinario e precario dell’essere umano. Altrimenti che lo avremmo inventato a fare? 

Set it off, è un film in cui lo schiaffo di Jada Pinkett al fratello è in un certo senso anticipatorio dell’efferatezza con cui la donna, insieme ad altre tre donne, compirà diverse rapine (che Will si sia innamorato di Jada vedendola proprio in quel film?). E gli uomini, nel film, sempre fermi a guardare. 

La vita dispari, Paolo Colagrande / Einaudi


“La vita dispari”, a me, non è piaciuto. Eppure non riuscirei a non consigliarlo a chiunque. Quando non capiamo qualcosa pensiamo sempre che il problema sia quel qualcosa. Racconta il disagio che un bambino può trascinarsi dietro per tutta la vita, un disagio che in molte persone influirebbe certamente nel rapportarsi con gli altri, come avviene con certi blocchi fisici, emotivi, mentali o esistenziali che ognuno di noi detesta avere. Buttarelli no. Riesce a realizzarsi comunque, nonostante tutto. Vita dispari sa di vita sinistra, come se fosse un problema, ma il vero problema è negli altri, anche e soprattutto a partire da colui che racconta l’intera vicenda di Buttarelli, Gualtieri, narratore inaffidabile eccelso attraverso la “voce” di suo nipote, a sua volta probabile narratore inaffidabile eccelso. Che sgretola ciò che è già sgretolato. Credo che il libro non mi sia piaciuto perché l’impressione iniziale è che, per via dei neuroni specchio e della ridondante (non) cultura dei nostri tempi, il protagonista debba necessariamente patire i peggiori disagi. Per me il problema dev’essere stato il focus sul protagonista, che invece parrebbe essere, malgrado dotato di problemi sinistri e dispari, solo un pretesto di analisi della società tutta, a partire dal sistema educativo locale sino alla moglie “del” Buttarelli. E dell’esistenza, dispari, appunto. D’altronde, il problema sinistro non lo si nota quasi neanche, man mano. Anzi, è una maniera ulteriore di perdere un’interezza fittizia che gli altri hanno, e di adoperare una metà più integra e più funzionale. Anche più funzionante. E sempre di focus si tratta quando si crede di avere tanti problemi, mentre il casino è enorme, è attorno, talmente evasivo da non identificarlo neanche. Comunque tecnica (non soltanto di scrittura creativa), insensatezze senza una fine, ironia, filosofia. Narrativa eccellente in uno stile eccellente, surreale e assurdo nei fatti, nei presupposti e nell’immedesimazione, quello di Colagrande, che rileggerò volentieri e che consiglio a chiunque. Ma non dimentichiamo che ce lo ha raccontato Gualtieri.

Licorice pizza, e la fretta di chi non sa neanche mangiarla


Leggendo alcune recensioni, commenti, pareri sull’ultimo film di Paul Thomas Anderson mi è salito il sangue al cervello. Non perché il film debba essere per forza capito o perché debba piacere per forza, né tantomeno perché non è detto che in un film debba succedere per forza qualcosa, come ritengono in molti. Nonostante il film sia stato accolto entusiasticamente dalla critica e abbia elargito consensi anche in gran parte del pubblico, ciò che è emerso è che si sente sempre più l’esigenza di sensazionalizzare e di veder sensazionalizzare ogni cosa. Per carità, esistono film in cui davvero non succede assolutamente niente, ma significa ben altro rispetto a quanto solitamente si crede. Significa che non c’è un significato di fondo, non che non si susseguano eventi. Non c’è un significato incisivo, di fondo. Probabilmente non ci credono neanche attori, sceneggiatori e registi. E, secondo me, non è questo il caso. Il senso, qui, non è da rintracciare necessariamente nella sceneggiatura o nella regia, ma negli anfratti dell’essere, nelle sensazioni intime ma trascurate e, se necessario, nell’osservazione, nella non-fretta, nella pazienza che ognuno di noi ha per le cose che ama, che poi sono quelle ritratte nel film perché universali. Qui, il significato di fondo e più un sentimento, nostalgico e temporale, tenerezza, mai didascalica né sdolcinata. Chiaro, se lo si vede dopo una lunga giornata di duro lavoro alla fine della quale ci si vorrebbe soltanto svagare o rilassare un po’, magari potrebbe non essere il film più adatto, ma mi piacerebbe che di certi film imparassimo a dire “non è il film adatto per me, questa sera”, e non più “questo film fa letteralmente schifo”, o che è adatto per mettersi a letto. Puntualmente, però, vengo smentito dalla realtà. 

“Licorice pizza” è un film in cui il tumulto interiore adolescenziale (nonostante la protagonista femminile non sia adolescente) non è ancora verbalizzato; in cui tentare di fare il fico con una ragazza non corrisponde necessariamente a esserlo (ed è qui una delle tenerezze lampanti del film); in cui irrompere nella vita di un adolescente e “giocarci” dall’alto della propria età ed esperienza non corrisponde al fatto che quella esperienza ti renda necessariamente più esperta. La scena in cui Alana guida abilmente il camion evidenzia che agli occhi di Gary non è soltanto capace, ma sovrannaturale, come l’armonium trovato da Barry fuori dalla sua ditta in Punch-Drunk Love (Ubriaco d’amore), in cui l’amore non è, come qui, circostanziale, ma senso più esteso, esistenza che cambia cosa si è e cosa (si) appare, o come le rane violente e salvifiche allo stesso tempo in Magnolia. Luce e ombra sempre lì a evidenziare la trascendenza di qualcosa che è semplice e indubbiamente vitale. Alana quasi sovrannaturale, ma estremamente terrena negli imprevisti emotivi, esattamente come Gary, imprenditore-attore-bambino. In Lacorice pizza c’è sensualità femminile e mascolinità, fragilità, irrequietezza, intelligenza matura e capacità effettiva contro un’intelligenza immatura che tenta di dimostrare le medesime capacità effettive e affettive. Ma entrambe, puntualmente, si annullano. Un’apparentemente statica evoluzione contestuale che diventa senso più universale, anche al di là del film. E forse la genialità di Paul Thomas Anderson sta proprio in questo: la pazienza che si ha necessità di avere nella comprensione di un figlio adolescente è la stessa richiesta allo spettatore nei confronti del film. Nei confronti della propria esistenza, delle contrapposizioni alla propria esistenza, degli accadimenti della quotidianità, propria e sociale, di una interiorità rimasta senza parole perché deve ancora impararle, dei propri sogni e dei sentimenti condivisi anche se non condivisi, anche se non palesati. Il tutto, in un contesto asfissiante tra novità commerciali e contraddizioni etiche e storico-culturali.

Libertà sessuale (che non germoglia mai in lecita piena fierezza) apparentemente sorretta dagli alti ideali di una politica nuova, a sua volta contrappuntata dall’infantilismo della stessa nel negarsi comunque. Una facciata già screpolata in partenza, mentre Alana e Gary continuano imperterriti a vendere materassi ad acqua e a vietarsi di crescere pur fiorendo in un panorama comune. Malinconia malconcia che ricorda quella del giovane Holden di Saliger: Peter Pan che non vuole assomigliare né all’età né al tempo, né a William Holden (Sean Penn), né a Jon Peters (Bradley Cooper) e alla loro efferatezza verbale e comportamentale, che non vuole essere loro né ricordarsi di loro. Non a caso, Alana è più grande di Gary, a rappresentare una transizione quasi solo simbolica, ad accompagnarlo verso il mondo più adulto, che paradossalmente non è ancora pronto per essere adulto. Ma, non ancora adulta, non ancora bambina, desiste. E così Alana e Paul Thomas Anderson raccontano futuro e presente solcando il passato. Alana e Gary, invece, sono lì, come in un limbo estatico, a godere della mezza stagione. Orgoglio, ambizione, gesti da decifrare, fare di tutto per apparire o per essere e per apparire, per poi demolire finissime strategie snervanti ma inefficaci e un castello di carta a favore di una più spontanea coscienza emotiva. Un pò come sbuffare dopo aver trattenuto per anni il respiro. Ed esserne soddisfatti comunque. 

E meno male che non succedeva niente. Vivere non è quasi mai un thriller, né un giallo, né fantascienza né azione. O meglio, è tutto questo, ma nella nostra testa, e nel cuore.

Salvini, e chiunque


Molti, in questi giorni, stanno virtualmente (e non solo) deridendo Matteo Salvini per il video virale che lo ritrae “accolto” dal sindaco di Przemysl, in Polonia, con in mano la maglietta che il leader della Lega aveva indossato al Cremlino anni fa, e che raffigura Vladimir Putin. Io non ci trovo niente di così divertente, per due ragioni in particolar modo: per la ragione stessa del dissenso del sindaco, ovvero la contraddizione in essere (netta ipocrisia, si direbbe, in questa occasione, ma in realtà tipica del modus operandi di Matteo Salvini) e che è già cosa grave, ma sopratutto perché è profondamente triste immaginare il disagio interiore del politico italiano, che comunque in parte traspare. Un disagio rivolto a se stesso. L’imbarazzo, in questi casi, non è legato a una logica circostanziale, ma a un livello più esistenziale. Non so a voi, ma ai miei occhi appare come un uomo in balìa di sé stesso, che prosegue sulla propria strada perché oramai capace solo di vivere di una (sua) rendita (non) umana, di una (sua) (non) dignità, di una (sua) povertà politica e relazionale nei confronti del prossimo e delle ideologie più etiche e più democratiche. Un tracollo, mentre crede di credere ancora in tutto quello che fa. E’ una questione più umana, per me. Mi rattrista non tanto pensare che stia accadendo a Matteo Salvini, ma che possa accadere a chiunque, e che accade.